Primavera: l’opera italiana trova il suo cinema nel debutto di Damiano Michieletto - TORINO+

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lunedì 29 dicembre 2025

Primavera: l’opera italiana trova il suo cinema nel debutto di Damiano Michieletto

di Giovanni Firera



Primavera segna l’esordio al cinema — con Michele Riondino e Tecla Insolia — del regista lirico italiano oggi più affermato e riconosciuto sulla scena internazionale: Damiano Michieletto. Un debutto che porta sul grande schermo il prestigio, il rigore e la forza espressiva dell’opera italiana, confermandone la vitalità e la capacità di dialogare con linguaggi contemporanei senza rinnegare la propria identità. Damiano Michieletto, cinquantenne protagonista della regia d’opera contemporanea, con Primavera compie il suo primo passo nel cinema restando fedele alla musica, cuore pulsante della tradizione italiana. Un debutto che rivendica con orgoglio il valore del nostro immaginario lirico: «È importante – sottolinea – che un film italiano in costume osi confrontarsi con le grandi uscite natalizie, dai kolossal internazionali alla commedia più popolare».




Il film cresce con passo sicuro, trova ascolto, conquista lentamente lo spettatore e racconta una storia profondamente italiana: la nascita di un talento musicale attraverso l’incontro con Antonio Vivaldi, emblema di un patrimonio culturale che continua a parlare al presente. La vicenda ruota attorno a Cecilia, figura immaginaria interpretata da Tecla Insolia, giovane musicista che vive e suona all’Ospedale della Pietà, l’istituzione veneziana dove insegnò Antonio Vivaldi, qui incarnato da Michele Riondino. Un luogo che per secoli accolse ragazze senza famiglia: orfane, figlie della miseria, di cortigiane o di relazioni clandestine con uomini dell’aristocrazia.


In Primavera il titolo allude meno alla celebre partitura vivaldiana che a un’idea simbolica di risveglio e liberazione. La scelta musicale evita volutamente le pagine più note e luminose: prevalgono sonorità introverse, attraversate da una malinconia dolorosa, capaci di restituire la dimensione più umana del compositore.


Il Vivaldi che emerge è un uomo inquieto e vulnerabile: sensibile, irrequieto, segnato dal mancato riconoscimento, fragile nel fisico e ripiegato su se stesso. Un solitario, sacerdote senza una vocazione autentica, più attraversato dal tormento che dalla gloria. Nel racconto lo incontriamo a trentasei anni, quando Antonio Vivaldi fa ritorno all’Ospedale della Pietà, dove aveva già insegnato in passato. «Di lui sapevo pochissimo – racconta Michele Riondino – anche perché la sua figura è stata davvero riscoperta solo nel Novecento, dopo un lunghissimo periodo di oblio, nonostante fosse stato uno dei compositori più imitati e copiati della sua epoca».


L’immagine stereotipata lo dipinge come libertino e ossessionato dal denaro. Il film sceglie invece un’altra strada: Vivaldi inseguì sì successo e riconoscimento, ma lo incontriamo in un momento di sconfitta, dopo il fallimento come impresario. Ed è proprio questa caduta a renderlo più vicino, più umano, nei desideri e nelle frustrazioni. Non è un vizioso né un seduttore, non è alcolizzato né erotomane, e nella storia non c’è alcuna relazione sentimentale con Cecilia. Il suo potere non è quello dell’uomo sulle donne, ma quello del musicista sulle interpreti: esercita un dominio artistico sulle giovani dell’istituto, future protagoniste della prima orchestra femminile d’Italia, trattandole come strumenti da accordare e perfezionare.



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